“Per ricostruire le comunità bisogna ripartire dal cibo” Seminario in video conferenza con Pierluigi Paoletti

Dopo la laurea in giurisprudenza mi sono formato nella consulenza alle banche per lo sviluppo di nuovi prodotti finanziari e nell’ultima parte mi sono specializzato nell’analisi dei mercati finanziari e delle commodities.

Un periodo di travaglio interiore mi ha portato a lasciare quel mondo e dal 2002 al 2015 ho tenuto un blog dove gratuitamente spiegavo ai non addetti ai lavori il funzionamento dell’economia e dei mercati finanziari.
Sono stato fra i primi a studiare e divulgare il sistema di creazione della moneta e a sviluppare soluzioni: insieme ad altre persone ho fondato Arcipelago SCEC, i buoni della Solidarietà ChE Cammina, ho lanciato una start up nel mondo della diffusione della banda larga come bene comune e la testata giornalistica Italia che Cambia.

Sono un “sognatore concreto”, credo fortemente nel potere rigenerativo della comunità e mi adopero affinché possa esprimere tutto il suo potenziale positivo.
Credo fortemente che quando le persone si mettono a collaborare, accadono i miracoli e per questo vedo il nostro futuro pieno di sorprese entusiasmanti.

Il seminario in video conferenza si è tenuto martedì 27 luglio 2021

Riportiamo di seguito la trascrizione del seminario tenuto in video conferenza

Per ricostruire le comunità bisogna partire dal cibo.

Lavoro nel campo dell’economia da sempre, alla fine degli anni ‘80 ho fatto la consulenza alle banche per quanto riguardava quei prodotti innovativi che poi hanno preso piede, ahimè, e sono stati gran parte alla radice dei nostri problemi attuali e parlo dell’utilizzo al consumo, dei mutui da banco, cioè di prodotti che, naturalmente, dovevano arrivare alla grande massa di persone. Io ho lavorato nella fase finale di diverse attività: infatti dagli anni ’90 in poi il mercato bancario si è completamente stravolto, è arrivata la deregolamentazione, è arrivata la privatizzazione di questi istituti e poi sono arrivati anche gli investitori esteri. Così sono andato a fare consulenze alle imprese, ma la consulenza alle imprese ha avuto, anche lì, un collo di bottiglia; poi sono andato ai mercati finanziari, prima del 2001. Ecco, i mercati finanziari hanno dato il via, per me, a quel ritorno in me stesso, perché non mi sentivo più parte di quel mondo che avevo contribuito a far crescere, che mi aveva alimentato fino a quel momento. Per me il 2001 è stato il baluardo, il confine che, superato il quale, io mi sono fatto delle domande, sono uscito da quel mondo perché non era più possibile, ho studiato tantissimo per capire perché avevo questa inquietudine profonda, interna, e questo mi ha fatto scoprire tutto un altro tipo di problematica, cioè che quella economia, quella finanza era stata costruita appositamente per capovolgere lo schema dei valori su cui noi eravamo cresciuti, che dovevamo, per forza di cose, ricominciare a ripensare tutta una serie di settori che, naturalmente, dipendono da questo. Oggi l’economia ha invaso tutti i campi e tutti i campi rispondono a una logica economica, cosa che è impossibile; se guardiamo anche la stessa sanità, non può rispondere come un’azienda, l’educazione: ci sono tutta una serie di attività in cui lo Stato deve salvaguardare alcuni interessi, che se soggiacciono a una logica economica, chiaramente questo viene completamente disatteso. Quindi mi sono dedicato alla ricerca delle soluzioni e da lì ho cominciato a creare determinate situazioni per il rilancio delle economie locali, per mettere in rete i produttori, per lavorare con le piccole aziende che, man mano che si va avanti, oggi è solamente la parte estrema che vediamo, vedete che c’è una vera e propria guerra alle piccole imprese. Non c’è la volontà di finanziamento – se andate in banca a chiedere un credito, chiaramente la banca risponde a delle logiche e la piccola impresa non può avere le risposte per cui non viene finanziata – lo Stato è diventato peggio dello sceriffo di Nottingham, per cui tutte queste attività – voi siete degli eroi perché continuate, nonostante tutto e tutti, a fare una buona impresa e oltretutto in un campo, quello alimentare, che è stato forse quello più penalizzato, in questi anni. Tutto questo excursus è necessario per capire dove siamo arrivati oggi. Siamo partiti da un dopoguerra, dove consumavamo del cibo locale, non facevamo rifiuti, nelle nostre comunità non esistevano rifiuti, esisteva il compost – noi le chiamavamo concimaie, dove si utilizzavano gli scarti alimentari per poi andare ad arricchire la terra. Ma non avevamo rifiuti, non c’era plastica, non c’erano le cose che buttiamo via normalmente; non esistevano i supermercati, esistevano le botteghe che, naturalmente, non avevano i prodotti confezionati, ma era cibo sfuso: c’erano i grandi contenitori da cui attingevano per darci quello che ci serviva; c’era il credito che facevano alle famiglie: io andavo alla bottega, compravo quello che dovevo comprare e poi dicevo “passa mamma”, a fine settimana. Già c’era questa predisposizione della comunità ad aiutare se stessa, perché io aiuto te ma tu aiuti me. Il mutuo aiuto, che fa parte della nostra cultura, era alla base dei nostri rapporti. Successivamente, nel dopoguerra, tutte queste cose si sono trasformate: il processo di modernità ha portato a consumare prodotti totalmente diversi: plastica, derivati del petrolio, confezioni – perché il prodotto che si consumava doveva essere anche bello, doveva rispondere a determinate esigenze; hanno cominciato a immettere dei piccoli supermercati quindi una logica che non era quella del cibo locali, dei prodotti creati e venduti localmente, ma era una logica che iniziava a cambiare il nostro modo di vedere e di comprare. A un certo punto le piccole botteghe si sono quasi esaurite, non ci andava più nessuno perché non era più di moda, bisognava andare a fare la spesa al supermercato; c’era una logica insita in questo sistema economico, prima lavorava una sola persona in famiglia e mandava avanti tutta la famiglia. Negli anni ’70 già dovevano lavorare in due per mandare avanti la famiglia e non si potevano più permettere la cosiddetta villeggiatura, quindi da un mese in villeggiatura a una settimana in pensione. Adesso, se ci fossero tre persone a lavorare, forse sarebbe meglio, la settimana di villeggiatura non esiste più ma casomai ci facciamo un’escursione al mare quando capita. Questo per dire che è stato un progetto a imbuto che ha cambiato il nostro modo di pensare e di vedere la realtà attraverso la manipolazione mediatica, in fin dei conti. Era di moda usare quel certo tipo di prodotto, era di moda fare un certo tipo di azione e quindi tutti volevano fare quella cosa lì. Oggi, ci stiamo trovando nelle condizioni di dover ripensare completamente perché questo sistema ha estremizzato a tal punto tutte queste cose che oggi abbiamo necessità impellente di rimettersi insieme e ripensare completamente dalle basi il nostro sistema, perché quello in cui viviamo è esattamente la parte peggiore, quello che è stato il prodotto di un pensiero distopico, cioè il cioè il contrario dell’utopia, cioè un inferno in terra. Effettivamente è così e un’impresa, oggi, lo sa quanto è difficile portare avanti le cose. In questo processo c’è stata una disgregazione anche delle comunità locali: adesso non c’è più la comunità locale, a parte che voi siete in una regione che ancora, per fortuna, questi semi ce li ha ancora, perché siete molto gelosi della vostra cultura contadina, quindi Slow Food e tante altre iniziative sono alla base di un cercare di recuperare e di aiutare la cultura della comunità. Forse aiuta anche la vicinanza delle montagne perché chiaramente in montagna c’è più facilità ad avere questo mutuo aiuto, quindi a sentire le necessità del proprio vicino e ad andare in aiuto quando serve. Comunque sia noi, oggi come oggi, non è che possiamo partire -questa è forse una delle cose più importanti da comprendere- non possiamo cercare di cambiare un sistema partendo solamente da un aspetto. Il sistema è diventato talmente complesso che se non ripartiamo a ragionarci prendendo in considerazione più aspetti nello stesso momento, non riusciamo a trovare la quadra. Oggi è difficile anche comunicare la differenza tra un cibo di qualità, oggi tutti si sono riempiti la bocca di cibo biologico, addirittura anche il supermercato, che è il contrario di quello che è il cibo sano, ha il suo scaffale di questi cibi cosiddetti biologici: sono sempre industriali, ma hanno l’immagine del cibo sano, di qualità, e questo naturalmente la scusa per farlo pagare di più rispetto al resto. Quindi questa difficoltà è una difficoltà culturale che noi dobbiamo iniziare da affrontare in un modo sistemico. Affrontarlo in modo sistemico vuol dire proprio che mentre affronto una problematica, che è quella magari del mangiare sano, della cultura alimentare, io devo, assieme a questo, e mi sembra che Mirella lo dicesse all’inizio della riunione in maniera spontanea, perché lei ha capito che senza un approccio più esteso, non si possono risolvere queste cose, quindi nel momento in cui prendiamo in considerazione di lavorare sulla cultura alimentare noi dobbiamo lavorare sull’educazione, sulla cultura imprenditoriale di chi fa il cibo, dobbiamo lavorare sulla distribuzione, cioè creare delle reti di distribuzione di questo cibo perché il sistema è molto efficiente, però ha pensato questa efficienza non per noi, ma per quelle imprese che rispecchiano in tutto e per tutto questo sistema e quindi ha accettato anche tutte le logiche che questo sistema impone. Se noi vogliamo in qualche modo incidere in maniera forte sulla nostra comunità, noi dobbiamo lavorare su questi aspetti, che sono forse la cosa più difficile, perché lavorare contemporaneamente su varie sfere di azione non è semplicissimo e quindi il nostro sforzo è anche maggiore però questo non fa altro che farci comprendere come sia importante creare un’alleanza e una collaborazione con gli enti locali, con le aziende sanitarie locali, le Asl (che poi anche nella sanità ormai è tutto un’azienda); la scuola, anche lei, risponde a delle logiche aziendali e quindi le scelte non vengono fatte in nome di qualche nobile intento, ma solamente si può fare perché costa poco o non si può fare perché non abbiamo soldi. La difficoltà è quella di comporre un puzzle dove tante figure della comunità riescono a collaborare insieme: quindi la parte giuridica, da parte educativa, quindi la scuola, la parte imprenditoriale, quindi le imprese che fanno parte del territorio. Già se queste cose cominciano a tendere verso un unico scopo, non riusciamo a risolvere gran parte dei nostri problemi. Un approccio sistemico e anche un approccio duraturo perché va oltre le problematiche contingenti, ma riesce a impostare la cosa con una logica di lungo periodo e quindi da fuori dalla volontà delle persone che hanno messo in moto questo meccanismo. Ovviamente tutto questo è facile a dirsi e difficilissimo a farsi, quindi noi dobbiamo cercare, quanto più possibile, di creare connessioni in un mondo che, invece, ci vuole divisi, anzi più siamo settoriali meno si rompe le scatole. In questo momento abbiamo la difficoltà di mettere intorno a un tavolo tante persone che hanno, a volte, interessi divergenti. Però se riusciamo a trovare, all’inizio abbiamo necessità di trovare persone che la pensano come noi, quindi il politico di turno, il dirigente scolastico che magari, come la Maria, ha fatto quel tipo di rivoluzione, ma, come vedete, una rivoluzione spontanea che poi è stata fermata perché è contraria a delle normative. Quindi noi purtroppo dobbiamo tenere conto delle normative che ci sono, dobbiamo tenere conto che dobbiamo fare una rivoluzione gentile e dobbiamo anche mettere insieme quelle persone che normalmente non la pensano come noi. La difficoltà è estrema ma è l’unica strada che noi abbiamo.  noi abbiamo una disgregazione economica, come un corpo perché l’economia funziona esattamente come un corpo umano, cioè la natura replica questi sistemi in tutti gli ambiti. Quindi l’economia immette nell’organismo – la comunità – le materie prime, le lavora, espelle quello che non le serve, manda nutrienti a tutto l’organismo, compreso quello che prende le decisioni, che, nell’economia, sono i governi e quindi il Parlamento. L’azione che hanno fatto in questi 70-80 anni e stata quella di svuotare la funzione dei vari organi dell’economia e spostarli completamente: le decisioni non vengono più prese dal nostro Parlamento ma sono organi sovranazionali, quindi l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il World Economic Forum, l’Organizzazione Mondiale del Commercio… sono tutti organi che stanno al di fuori della nostra portata e che, a cascata, ci inondano di decisioni già prese e noi dobbiamo solamente metterle in atto. Le materie prime non sono più prodotte in loco e lavorate in loco, ma sono prodotte in Cina e lavorate, magari solo assemblate, In Italia. E così in tutto il mondo: la Cina è diventata la fabbrica di questo mondo, il centro di produzione di tutto. Oggi cosa fa, il centro di produzione dice: attenzione, perché io ho un potere nei vostri confronti e posso decidere che oggi non vi do più queste merci se non mi pagate il prezzo che io stabilisco. Infatti, oggi tutta l’industria è in grossa crisi perché la Cina ha deciso di chiudere i rubinetti. Questo vuol dire che io non ho più autonomia come nel corpo; addirittura, nelle civiltà contadine tutto avveniva all’interno della fattoria: si produce il cibo, si allevano gli animali che poi servono per il nostro sostentamento. Oggi questo non è letteralmente più possibile, perché magari voi producete del cibo sano, e dovete fare accordi di distribuzione con chi ve lo porta, magari supermercati, che hanno delle logiche totalmente diverse dalle vostre e allora, come Agrispesa, vi organizzate per fare quello che sarebbe giusto fare, ma con una difficoltà decisamente più elevata, perché il sistema non aiuta, anzi, cerca di ostacolare queste attività. Visto che la nostra è quasi una lotta impari come Davide contro Golia, dobbiamo cercare di essere più intelligenti del nostro interlocutore e per fare questo dobbiamo tessere delle relazioni tra le persone, cominciando a creare quella controcultura che ci consente di lavorare in modo lungimirante, oltre il breve termine, per arrivare anche a cambiare le nostre abitudini alimentari. Bisogna ripartire, ovviamente, dalle scuole perché lì c’è il nostro futuro e anche perché, se noi parliamo ai bambini, i bambini vanno a casa ed educano i genitori. È un processo inverso ma è fondamentale. Le cose che i bambini imparano a scuola sono quelle che fanno imparare anche ai genitori, o gli tirano le orecchie quando fanno magari la raccolta non indifferenziata. E la stessa cosa nella cultura alimentare. Adesso dobbiamo portarla con le mense scolastiche, ma le mense scolastiche hanno, ahimè, un problema: le mense con le cuoche sono state tolte e quindi gli appalti vengono fatti con la società che hanno, sì, un protocollo alimentare da seguire, però la qualità del cibo è difficile che ci sia in un prodotto precotto che viene trasportato e magari fatto 2-3 ore prima e poi consumato a scuola. Lì c’è un lavoro a monte, voi siete in una regione che, anni fa, fece un esperimento interessantissimo: ci fu un ospedale che reinserì le mense interne perché voi avete un luminare, che è il Professor Berrino, che del cibo ha fatto una medicina come in effetti è, e cercò, in questa maniera, di portare nell’ospedale ci borsano dove i malati stessi, già mangiando cibo sano, riuscivano a guarire con molta più facilità e molta più velocità. Questo significa che, se noi siamo quello che mangiamo, dobbiamo tornare a mangiare cose sane perché altrimenti anche la nostra salute ne avrà un danno fortissimo. Come fare? la cosa migliore da fare è un learning by doing, come dicono gli inglesi, ovverosia imparare facendo. Quindi trovare delle persone sensibili, che possono essere per esempio le scuole professionali: ci sono  delle scuole professionali, istituti agrari e turistico alberghieri, che sfornano ragazzi che poi vengono sfruttati in maniera pesante dall’industria del turismo, oggi neanche più quello perché hanno distrutto anche il turismo, quindi si trovano praticamente a non fare più niente e in questo modo si potrebbero creare un sistema di produzione, lavorazione quindi trasformazione e distribuzione di prodotti alimentari. Questo in collaborazione, ovviamente, con le imprese locali che producono perché l’impresa o ha la fortuna di avere chi le costruisce un sistema per la vendita, ma diversamente è un problema perché ognuno deve fare da solo quello che normalmente si può fare quando si è in tanti come economia di scala. Non dobbiamo reinventare sempre l’acqua calda, dobbiamo metterci insieme, come piccole imprese, e fare, invece che la PDD, – la piccola distribuzione disorganizzata – dobbiamo fare la piccola distribuzione organizzata. Bisogna mettersi insieme per creare un qualcosa di stabile e duraturo. Se il cibo di qualità ha un prezzo superiore, perché fatto non industrialmente e in modo completamente diverso, se noi riuscissimo a creare delle situazioni di servizio in cui alcune fasi di lavorazione vengono svolte con il solo scopo di fare cultura alimentare -e mi riferisco alle scuole- probabilmente questa assenza di lucro produce quel surplus della lavorazione del prodotto – voi sapete benissimo che la materia prima alimentare ha uno scarso valore mentre la materia trasformata ha più appetibilità – quindi se riusciamo a creare questo plusvalore dalle trasformazioni dei prodotti alimentari e questo plusvalore viene poi retrocesso al produttore come integrazione del prezzo di mercato, probabilmente il guadagno del produttore rimane integro e c’è la possibilità di dare un prezzo alle famiglie che è inferiore o pari a quello che invece viene fatto in maniera industriale. A monte di questo ci sono le scuole professionali che possono aiutare questo processo. Nel mentre noi si fa cultura e si preparano le nuove generazioni al lavoro, gli si insegna un mestiere e quindi ci sarà il macellaio che insegna a utilizzare tutte le parti della bestia allevata, naturalmente, in maniera idonea, non industriale, oppure il fornaio che sa come amalgamare le farine di un certo tipo -farine antiche, non farine 00, che naturalmente è un veleno; quindi, si insegna anche queste cose nei laboratori dove la materia prima, che arriva dalle aziende agricole verrà trasformata. In questo caso possiamo anche attivare il marketing territoriale: se alberghi, strutture turistiche, ristoranti, invece di affidarsi a grossisti industriali come avviene, addirittura anni fa scoprì che nell’industria alberghiera, non mi spiegavo come mai, girando l’Italia, vedevo lo stesso burro, la stessa marmellatina, lo stesso snack, proprio le stesse cose, schifosissime, uguali in tutto il territorio e poi mi hanno spiegato che c’è praticamente qualcuno che ha in mano il monopolio di queste cose: c’è un’industria di Rimini che praticamente rifornisce quasi tutto il mercato. Ma se noi, lavorando come Davide, piano piano, cominciamo a costruire un rapporto e attraverso queste strutture scolastiche, ovviamente guidate sia dai professori, ma anche dalle persone che ormai sono in pensione, ma che hanno ancora quel sapere, quella voglia di trasmettere il loro saper fare alle giovani generazioni, io credo che si potrebbe travasare questa fornitura di cose incommestibili, sostituendole con prodotti locali. A quel punto, probabilmente, se vado in Trentino, utilizzerò i prodotti delle valli del Trentino, se vengo in Piemonte potrò utilizzare quelle che sono le eccellenze di quel territorio. E quindi io imparo. Prima, se volevo mangiare qualcosa di particolare che si faceva soltanto in un territorio, io andavo in quel posto preciso. Oggi si telefona a Glovo e te lo portano a casa, con tutto quello che comporta; io sto parlando di un sistema che ha completamente stravolto il nostro modo di vedere, di assaggiare, di gustare anche le cose. Noi dobbiamo riscoprirlo quindi l’essenza della trasformazione del prodotto è anche quella di fare da fornitore alle strutture che lavorano in quel territorio. Oltre a questo, naturalmente, possiamo lavorare anche sulla ristorazione. Ci sono delle tradizioni che noi abbiamo, che è il cibo di strada, che sono bellissime. Non conosco benissimo la vostra regione ma sono sicurissimo che c’è del cibo di strada da recuperare, delle cose che si facevano velocemente per mangiare anche nelle strade; tutto questo va riscoperto, rielaborato in forma moderna, anche perché il lavoro da fare sulla cultura alimentare è anche quella del gusto: cioè il gusto di un cibo sano molte volte è molto diverso rispetto a quello industriale e molte volte alle persone non gli piace. Un pane di grani antichi ha un sapore completamente diverso da un pane industriale, quindi noi bisogna riabituare le nostre papille gustative a questi sapori e per fare questo ci vuole informazione, marketing, come vedete è tutto un cerchio che si chiude intorno al centro che è il prodotto. che però ricrea la comunità stessa. Perché se la comunità è inconsapevole e non riesce a comprendere che se va a fare spesa al supermercato, o va a mangiare da Mac Donald, fa un danno alla sua comunità. Questa è una cosa gravissima, noi bisogna dirglielo, bisogna farglielo comprendere, però lo possiamo fare solamente se non siamo una voce fuori dal coro, ma cominciamo a collaborare con quelle persone che hanno questa sensibilità e fanno parte di quegli aspetti che possono, insieme, prendere delle piccole, però grandissime, decisioni che possono invertire un processo. Io questa cosa l’ho provata a fare in più territori, la parte dove ci è riuscito meglio è stata la Calabria, nel posto più povero di Italia che è Crotone, dove questa cosa fu accolta in modo entusiasta da tutte le scuole coinvolte, perché lì c’era una dirigente scolastica che aveva compreso l’importanza di lavorare in questa maniera e creare, insieme alla cultura alimentare, anche posti di lavoro. Perché tu fai entrare nella struttura i ragazzi che sono nel corso di studi, e come se facessero l’alternanza scuola lavoro all’interno di una struttura che però è finalizzata alla cultura alimentare; escono, si diplomano e le persone più meritevoli possono restare all’interno di questa struttura. Una cosa abbastanza interessante che vi consiglio di andare a vedere è la Piazza dei Mestieri, che è fatta da una Fondazione. Non ha la logica di comunità, come invece è importante costruire, però la Piazza dei Mestieri, grazie anche a finanziamenti di un certo livello, ha avuto questa cosa intelligentissima di creare, all’interno di una scuola, una birreria, un ristorante, cioè tutto quello che io dicevo loro lo hanno fatto. Loro però sono mancanti di un aspetto che è quello della comunità, loro sono, diciamo, l’isola felice, perché poi non seguono i ragazzi successivamente, ma noi bisognerebbe invece creare un tutto unico, un percorso formativo. Quando un ragazzo si è formato all’idea della cooperazione con gli attori del territorio, ha visto tutto il processo, ne è diventato parte, quando esce deve mettere la sua azienda agricola o deve andare a lavorare nell’azienda agricola di famiglia, chiaramente ha un’altra concezione dell’impresa, che non è più quella di fare i soldi ma di fare i soldi insieme al benessere della collettività, quindi è un modo di pensare diverso, che lo puoi fare solamente se c’è un percorso che si delinea col fare le cose e quindi sulla trasmissione dei saperi, qualcosa che comunque gli rimane perché sono relazioni, emozioni, sensazioni che si porterà dietro tutta la vita.

Elena Rovera: come ti sei mossa, Mirella, verso le scuole?

Mirella: premetto che io provengo dallo studio della scuola alberghiera per cui la sensibilità arriva dall’età di 14 anni verso il mondo della cucina, del saper fare bene le cose in cucina, dell’assaggiare i piatti prelibati insomma. L’avevo già nel DNA ma poi è venuto fuori grazie agli studi intrapresi. Poi ho avuto la fortuna di avere dei genitori lungimiranti che hanno capito che la conoscenza delle lingue era fondamentale per qualsiasi attività si volesse intraprendere nella vita. Mi hanno spedita piccolissima in Germania a imparare il tedesco, quindi ho affrontato da subito un’altra cultura legata anche a dei contesti di attenzione all’ambiente, legati a una certa sostenibilità che avevano come popolo proprio nell’approcciarsi anche a tante cose che sono arrivate poi dopo, in Italia. Tutte le famiglie avevano un composter, vi faccio un esempio, per farvi capire che già sulla differenziata, o altri contesti legati alla sostenibilità ambientale, la Germania era già più preparata a livello di educazione. Poi, oltre alla conoscenza delle lingue straniere, ho avuto l’occasione di lavorare per l’industria, presso una ditta che si occupa di commercio estero nel mondo dell’automobile, ma ahimè un cambio vita, un brutto incidente in automobile mi ha causato la perdita della vista dall’occhio destro e la decisione di intraprendere un percorso imprenditoriale autonomo. Vivendo nel paese della menta, Pancalieri, vedendo che ci mancava quel tassello di valorizzazione legato a quel prodotto non solo a livello di materia prima, ma anche di prodotto finito, ho deciso di intraprendere questo percorso, ho dato il via ad Essenzialmenta, una ditta che si è specializzata nella produzione di olio essenziali di menta, ritenuto dagli esperti il migliore al mondo, ma anche, ormai, di un centinaio di prodotti finiti tutti sfornati con l’intento di valorizzare la menta di Pancalieri. Così sono nati sciroppi di menta, liquori di menta, caramelle, cioccolatini eccetera, tutto al fine di valorizzare questo ingrediente dell’eccellenza piemontese ritenuta veramente il meglio. E poi diciamo che la scelta di porsi nei confronti di questa valorizzazione con creatività, ha dato anche modo alla mia indole di venir fuori e quindi di sfogare le mie esigenze di fare vedere che la menta si può prestare e si presta a diversi matrimoni di qualità per cui sono state scelte etiche, le mie, di collaborare con artigiani in loco piuttosto che rivolgermi a grandi industrie. Quello di cui vado fiera sono proprio queste piccole collaborazioni con tanti piccoli artigiani, quindi la signora che, manualmente, mi fa le paste di meliga alla menta, il ragazzo che mi fa la caramella con la cotta fatto a mano, procedimenti che sono legati al passato ma che con la creatività che ci proietta nel futuro danno vita a un’economia che, secondo me, può trovare delle opportunità per chi sceglie di rivolgersi a un mercato come il mio. Non è un mercato verso una diffusione di massa, è un mercato più di nicchia però si rivolge a quella fetta di clienti attenti a questa tipologia di prodotti. Per me è fondamentale quella che è la domanda, la domanda del mercato, cioè stimolare la sensibilità personale, quindi partiamo dall’educazione sin dalla prima infanzia, persino nei tempi dell’allattamento. Se partiamo con l’educazione delle nostre papille gustative a un cibo genuino e diverso da quello industriale, al quale tutti ci siamo un po’ abituati, invece bisogna disabituarsi e tornare ai sapori veri. Poi secondo me abbiamo detto proprio la cultura del sapere e allora, sicuramente, i saperi e i sapori vanno raccontati, e anche noi, che abbiamo queste aziende piccole, dobbiamo diventare i promotori del territorio, fare noi stessi il marketing territoriale, anche aggregarci grazie a queste occasioni interessantissime, aprendo le porte delle nostre aziende a visite guidate, a un contesto di aperture alle mostre, agli eventi, io mi sono data da fare molto in questo senso, organizzando eventi come Musicalmenta, quindi la cultura della menta e poi questi gruppi musicali che suonavano nei campi, quindi c’era un aspetto legato anche all’emozione, all’arte, tutto quello che può sensibilizzare il consumatore. Poi il ruolo fondamentale della sostenibilità ambientale. Questo è un punto dolente che ci tocca particolarmente, perché se noi agiamo in un contesto dove ci poniamo degli scopi, abbiamo un’etica imprenditoriale in cui ci si muove in un certo modo, se troviamo la mancanza di sinergia con le istituzioni nel salvaguardare l’ambiente che ci circonda-magari troviamo un inceneritore a due passi-inutile che facciamo certificazioni bio, inutile che ci proiettiamo verso quest’ottica se poi non andiamo tutti verso la stessa direzione. L’Italia, secondo me, è un Paese che può tornare a brillare di luce propria, quando tutti viaggiamo nella stessa direzione che è quella del non dimenticarci del saper vivere italiano, cioè di tornare veramente a questa calma. L’Italia è slow, l’Italia non deve copiare la Cina nei suoi sistemi di produzione, deve puntare sul saper vivere, sul saper fare, l’abbiamo già perso molto nel vestiario. Nel made in Italy ci ha già dato dei brutti esempi di come c’è stato proprio il decadimento di questo saper fare, non perdiamolo nel gusto, nell’olfatto, nell’arte, non perdiamo questa ricchezza che è unica ed è riconosciuta a livello internazionale. Nessun paese ha la nostra varietà di prodotti, di eccellenze, di arte, dobbiamo tornare alla voglia di fare il bello, secondo me anche su un piano più creativo perché purtroppo vede un certo appiattimento a livello di marketing. Invece, le iniziative originali, quando si vendono i prodotti, vengono apprezzate, possono avere una grande risonanza. I social network possono aiutarci oggi che siamo piccoli e non possiamo sostenere spese incredibili di pubblicità: lavoriamo su questo aspetto, il web ci aiuta e quindi lavoriamo su campagne promozionali creative nel piccolo, badando all’impatto ambientale, non stampiamo dépliant su dépliant, cerchiamo di arrivare con iniziative soprattutto culturali. Per me questa potrebbe essere una ricetta unita alla formazione. Mi è piaciuto molto l’esempio della Piazza dei Mestieri che conosco bene, sono stata premiata con loro al Teatro Regio, anni fa, e avevo già ritenuto all’epoca il progetto interessante ed è veramente da portare sul palmo della mano. Tutto quello che fa parte di queste iniziative va sicuramente aiutato, anche con i fondi europei perché quando sento dire: eh, ma non ci sono i soldi. Non è vero, tornano a palate fior di soldoni all’Europa, non vengono spesi, perché non arriva nel momento giusto, nel modo giusto, tramite il politico giusto la domanda fatta in un certo modo. Invece, secondo me, se si va uniti cercando prima gli appoggi politici e anche i soggetti sensibili che hanno questa vocazione, per me ci possono essere dei buoni sbocchi che possono anche essere realizzati senza grosse spese di soldini e di denari anche legati alle famiglie. La rivoluzione che mi aspetterei dalle mense deve essere accompagnata anche da un certo sostegno, da un certo contenimento delle spese perché le famiglie non potrebbero affrontare una spesa abissale per la mensa scolastica, non è il momento, per cui bisogna anche essere propositivi in tal senso. E fondamentale trovare soggetti e sensibili e fare rete per questo tipo di discorsi.

Elena Rovera: Tombolini diceva qualcosa del genere, che i piccoli che fanno qualità hanno il compito fondamentale di fare crescere l’asticella della qualità nella grande distribuzione. E’ un pensiero olivettiano, una parte del proprio lavoro ha una funzione sociale.

Vedo 2 difficoltà: nelle piccole aziende manca la forza per fare tutto, perché tutte le aziende che conosco io avrebbero possibilità di dare lavoro almeno a due persone in più ma non reggono i costi, quindi manca la forza di seguire certe scelte, anche solo di pensarle e organizzarle, non è mica poco. L’altra è che esiste tutto un pezzo di normativa che dice che a scuola non si può pensare la torta di compleanno fatta in casa, ma la torta deve essere fatta da un professionista, esistono una serie di normative complicate, superare tutto questo, ci si sente molto soli e alla fine non si interloquisce, non si dialoga. Poi sappiamo che ci sono tanti piccoli, ci conosciamo, arrivare al progetto… però è interessante quello che hai detto, provate a pensare che un pezzo del vostro lavoro abbia valenza sociale pura per stimolare qualche cosa.

Pierluigi Paoletti
Si chiamano no profit utility, sono praticamente delle società che hanno il solo scopo di fare un qualcosa, ovviamente recuperando i costi ma non devono fare profitto, perché tutto quello che fanno lo fanno per la comunità. Noi bisogna recuperare un concetto, ora io l’ho utilizzato nelle scuole, che è forse l’aspetto migliore con cui si può utilizzare questa cosa perché si fa cultura, educazione, avviamento al lavoro: tutte queste cose, seguendo le normative, che sono disastrose, in Italia, l’HCCP, tutte quelle cose anche cervellotiche, ma con il giusto approccio si riesce a fare in modo sano. Se questo processo viene fatto in collaborazione con le aziende del territorio, le aziende del territorio apportano la materia prima. Oggi l’imprenditore deve saper fare l’impresa, il ristoratore, deve saper fare l’albergatore, il marketing, tutto. Nel mio modo di vedere le cose il produttore agricolo deve fare solo quello che sa fare, la produzione agricola e per evitare – ovviamente c’è una ragione, non è che sono tutti malati di megalomania che vogliono fare tante cose, le devono fare perché sennò il fatturato non c’è. Ma se noi li facciamo concentrare sempre più sulla qualità e quindi anche su metodologie magari nuove di cultura. Con Giusto Giovannetti, biologo di Torino, si era pensato di fare la certificazione, di evitare tutte quelle certificazioni di biologico che sono un commercio e basta, esaminando a campione il cibo e vedendo le sue capacità nutraceutiche. In questo modo hai questa certificazione nata proprio dall’analisi del prodotto stesso e questo si può arrivare a fare seguendo anche metodologie che comportano anche delle economie abbastanza importanti. Me ne sono occupato in passato, è un periodo che non lo faccio più però è molto interessante. Quindi l’innovazione all’interno della produzione agricola può essere messa al servizio delle imprese e alcuni passaggi sono fondamentali, tipo la trasformazione del prodotto che sappiamo essere poco remunerativa, noi la trasformazione del prodotto è quella che crea quel plusvalore che possiamo, se creato in una no profit utility, ritornare alle imprese. Quindi, che sia fatta dalle scuole o oggi ci sono le associazioni di più imprese -le reti di imprese- che possono mettere insieme alcuni pezzi della loro attività e fare alcune produzioni. Faccio un esempio, se io faccio pomodori e do a un’azienda no profit di questa rete di imprese il compito di lavorare il prodotto e di farne delle conserve, probabilmente tutto questo avrà un impatto, perché questo centro di trasformazione può servire più produttori. Io non ho la forza, come produttore, di mettere in piedi tutte le linee che servono per trasformare il mio prodotto però posso farlo fare da altri che, non avendo uno scopo di lucro ma essendo solo al servizio o della rete di imprese o della comunità stessa, come nel caso delle scuole, beh allora queste cose hanno un ritorno importante. Nel caso delle scuole c’è un passaggio ulteriore che è quello della vendita cioè di creare dei punti, cosiddetti empori, che sono i supermercati a cui abbiamo tolto tutto il contenuto esattamente come ha fatto il sistema per farci abituare al supermercato e noi utilizziamo la stessa metodologia, la svuotiamo dei contenuti della globalizzazione ed esaltiamo, invece, il prodotto locale. Quindi sono supermercati locali, dove le persone si possono recare a fare la spesa anche una volta alla settimana, che però sono prodotti del territorio e possono essere anche di una percentuale interessante più bassi di quello che è normalmente il prodotto locale proprio perché c’è questo passaggio intermedio che non è costoso proprio perché è fatto da una no profit utility. Questo concetto di essere imprese al servizio o di altre imprese o della comunità stessa. C’è, mi sembra nel vercellese, una no profit utility che gestisce l’acquedotto, che, storicamente, era gestito dalla comunità e ha continuato a farlo e questa cosa, naturalmente, può essere molto molto utile come concetto: un qualcosa che alla comunità serve, dove quell’impresa non deve guadagnare ma deve solamente dare un servizio e, una volta che ha ripagato i costi, è soddisfatta. Il concetto del profitto ha stravolto completamente tutto. Noi se non facciamo profitto su tutto, non possiamo fare niente: questo è un errore, noi dobbiamo rivedere queste cose in funzione di dove vogliamo andare e del mondo che vogliamo costruire. Per cui il concetto di servizio alla comunità, secondo me, è un qualcosa da riprendere.  se poi è messo al servizio anche della cultura, educazione, professionalità, costruzione di lavoro vero e proprio per i ragazzi è anche ancora meglio, naturalmente.

Lucia Cane
sia Pierluigi che Elena avete parlato del discorso normativo. Di fatto, questo discorso normativo che c’è nel settore alimentare, quindi l’HCCP, in primis, ma anche le certificazioni stesse, nascono per essere, e dovrebbero essere, sotto strumenti per supportare i produttori, soprattutto i piccoli produttori, e le stesse autorità dovrebbero essere quelle che lavorano a fianco di chi produce, di chi trasforma, di chi coltiva, perché solo applicando determinati criteri e ragionamenti si arriva a fare un prodotto sicuro. Purtroppo, è solo lo stesso meccanismo vizioso, che vuoi per scopi diversi, il non volersi prendere le responsabilità, vuoi la mancanza di competenze o lo stesso profitto, spesso e volentieri, ha trasformato queste cose da opportunità, strumenti, in vincoli. Quindi oggi, di fatto, nel settore alimentare – e in questo, secondo me, bisognerebbe fare un’altra piccola rivoluzione, produttori, trasformatori e tecnici insieme – oggi come oggi, se non spendi almeno 100.000 €, non riesci ad avere un laboratorio idoneo per fare una trasformazione anche semplice come potrebbe essere ad es. lo zafferano, penso all’essiccazione, cioè processi anche semplici che hanno dei rischi gestibilissimi in determinati modi e anche, magari, in strutture già esistenti che necessiterebbero di pochissimi interventi, perché poi alla fine, quello che fa veramente la differenza, come sempre in tutte le cose, sono le competenze. Se si lavorasse davvero insieme, dato che l’obiettivo è comune, istituzioni e produttori, tecnici, agricoltori, alla fine si potrebbe arrivare con un dispendio di energie e di risorse molto inferiore a un obiettivo molto migliore di quello che è attualmente perché poi non è la struttura costosa che ti dà la sicurezza, perché poi se non la sai utilizzare, se non sai gestire il processo, alla fine la struttura è del tutto inutile. E qui, di nuovo, è la conseguenza di una serie di logiche sbagliate, per motivazioni diverse che purtroppo hanno creato una rete che ingabbia anziché essere un sostegno. È molto triste questo, perché gli strumenti ci sarebbero tutti, basterebbe saperli e volerli utilizzare nel modo giusto.

Pierluigi Paoletti
Verissimo. C’è un altro strumento che, secondo me, può essere interessante, è quello che con un gruppo di persone stiamo facendo, che è la Fondazione di partecipazione. Non è una vera e propria Fondazione, ma è una Fondazione a cui possono partecipare, non solo chi apporta capitale, ma anche conoscenze, quindi anche professionalità utili per il raggiungimento dello scopo di questa Fondazione. Nel caso della comunità, questa Fondazione potrebbe essere costituita dal Comune, dall’ente locale, insieme alle associazioni che apportano le conoscenze per il raggiungimento di uno scopo. Il Comune, magari, per la dispersione scolastica, per la cultura alimentare, per il sostegno alla soluzione dell’obesità incombente ha in bilancio delle cifre, che magari sono basse, può metterle in capo a questa Fondazione e dare mandato alla Fondazione di attivarsi affinché, con queste risorse, possa iniziare la risoluzione di questi problemi. La Fondazione, non avendo i vincoli che ha l’ente locale, può creare anche delle situazioni di raccolta fondi, qualcosa che possa aiutare a incrementare questo tipo di attività che, se fatta unicamente a livello istituzionale, potrebbe confondersi nel mare di tutte le cose. Sempre l’ente locale, può non apportare denaro ma strutture – quante strutture ci sono inutilizzate in un patrimonio comunale – se invece date in gestione per qualsiasi tipo di attività, penso, a quella dell’emporio, cioè una struttura idonea a fare da supermercato o laboratori, a Crotone c’era il Banco Alimentare della Caritas che aveva una struttura adeguata e, in accordo con la diocesi, l’avrebbe data a queste scuole:  il problema che abbiamo incontrato a Crotone è quello che la dirigente scolastica è stata trasferita, le giunte comunali sono cambiate e quindi abbiamo dovuto ricominciare da capo. Ma in un territorio come quello di Cutro, Cutro era un piccolo comune vicino a Crotone considerato il granaio del Sud perché c’era la produzione più ampia di grano, c’erano diversi grani tra cui, nella parte finale, il Senatore Cappelli, però questo Senatore Cappelli non era più stato coltivato perché era più semplice il grano creso e quindi, con le modificazioni genetiche avvenute, era più semplice coltivarlo, non si allettava con le intemperie e il vento e quindi, praticamente, non c’era più. Con l’istituto agrario e con il turistico alberghiero abbiamo riportato il Senatore Cappelli, insieme a Giusto Giovannetti che ha seguito tutta la filiera ci sono due libretti base di sperimentazione, e adesso, in quel territorio, c’è solo Senatore Cappelli. Quindi vuol dire che un ettaro di terreno sperimentale fatto dall’ agrario ha portato un cambiamento culturale importante in tutto quel territorio. Questo vuol dire che a volte anche le piccole cose, che poi magari non sempre vanno a buon fine, come è capitato a noi, però producono dei cambiamenti. Quindi il mio consiglio è: fate, con una logica però che non sia una logica del breve termine ma fate con una logica sistemica e vi invito a valorizzare questo vocabolo perché tutte le cose fatte con questa logica rimangono, non se ne vanno e quindi producono quei risultati anche a distanza di tempo. Nel documento dell’emporio che ho mandato a Elena, alla fine c’è tutta un’appendice con tutti gli articoli di giornale tra cui anche quelli che sono interessanti perché sono cose reali, concrete, fatte, che hanno avuto, ahimè, un impatto più breve di quello che si sarebbe voluto, ma comunque ha dimostrato che quell’idea era un’idea concreta, fattibile. Ci sono due documenti, uno è il libretto “l’Economia è per tutti”, dove si analizza proprio questo processo di disgregazione e di ricostruzione del tessuto connettivo locale e il processo dell’Emporio, dove si vede anche il ruolo di queste no profit utilities.

Tu sei promotore di un’altra iniziativa importante. Vuoi dirci due parole?

Questo fa parte di quella evoluzione del pensiero e anche delle situazioni con cui ci andiamo a scontrare quotidianamente, sia le imprese sia le famiglie, e quindi noi stiamo mettendo in atto un’attività economica, che produce degli utili, dove però a monte c’è una Fondazione di partecipazione che si chiama BarterFly, che richiama volutamente la parola inglese che significa farfalla, è formata da due parole: barter (baratto) e fly (volare). Perché noi siamo in un momento di estrema trasformazione, sia individuale che collettiva, e possiamo, in questo momento, o disperarci, e concentrarci sulla morte del bruco, o affidarci al processo naturale e arrivare a vedere la nascita di una meravigliosa farfalla. Questa è una delle innovazioni che secondo noi è necessaria per innescare dei processi virtuosi, ovverosia attività economiche fatte da un’entità no profit, dove il profitto generato da queste attività va a sostenere progetti che altrimenti non avrebbero sostenibilità economica: pensiamo solamente a progetti educativi, che o li sostieni continuamente o non sono sostenibili economicamente. Quindi un’attività economica che non ha volontà di profitto privato ma quel profitto che genera lo reindirizza verso attività di pubblica utilità, chiaramente ha una sua valenza e una sua innovazione e in questo momento potrebbe essere importante. Qual’ è l’attività economica? L’attività economica è creare una casa comune dove le persone possono colloquiare, scambiarsi idee, scambiarsi beni, merci e servizi. Ho appena descritto un social. I social, però, attualmente stanno ponendosi come censori, quindi fanno censura, e stanno commerciando in maniera indegna i nostri dati personali. Ogni persona, hanno quantificato, produce circa 1.000 € in dati, che, una volta venduti, fanno un profitto occulto per queste aziende. Se noi costruiamo una casa dove non c’è censura e non c’è commercio di questi dati, possiamo cominciare a costruire una comunità virtuale con il concetto delle comunità locali. Il social si chiama sfero.me, potete andare a visitarlo tranquillamente. La logica è quella delle sfere, infatti nel momento in cui ci si iscrive, si dichiara a che sfera territoriale si appartiene e se la nostra attività è solamente territoriale, è nazionale o internazionale, in questo modo le ricerche che poi verranno effettuate, sia delle merci che delle attività e anche delle persone che vogliono interagire con altre persone, naturalmente è tutto un evolversi perché il 5 di agosto faremo la costituzione della Fondazione, e poi andremo a fare una raccolta fondi per finanziare tutta l’evoluzione di questo social. L’idea è quella di cerchi sempre più larghi, di fare interagire le persone nel loro territorio, con una logica locale, ma poi il concetto autarchico non è quello del locale ma è un concetto di chiusura, noi invece vogliamo aprirci, per cui una volta che il cerchio locale sia esaurito dobbiamo andare al cerchio vicino: quello regionale, quello nazionale o addirittura internazionale. Fatta con questa logica non è più una logica globalizzante, che penalizza il locale perché delocalizza le produzioni, ma dà una situazione diversa. Quello che vogliamo fare è creare un grande e-commerce, quindi un centro dove si possono scambiare merci, beni e servizi, e un e-commerce di servizi ancora non è stato fatto, che possa mettere in grado le imprese di trovarsi una struttura che è solamente un pay per use, cioè io la utilizzo e pago ogni volta che la utilizzo, sennò posso iscrivermi e non spendo assolutamente niente. Questo e-commerce è quindi un servizio a quelle imprese che oggi devono vendere anche online, ma non sono in grado di farlo, perché un’impresa ha dei costi notevoli da gestire se vuole, essa stessa, mettersi online, quindi avere un proprio e-commerce. Cosa che invece, in questo modo, sarebbe gestita centralmente dalla Fondazione che gestisce sfero. Successivamente anche i privati perché quelle che erano le banche del tempo avevano dei limiti perché o avevi necessità di qualcosa in ore di tempo oppure non potevi utilizzare più di tanto queste comunità. In questo caso lo quantifichi attraverso un’unità di misura, un’unità di conto che noi chiamiamo fly, che puoi utilizzare tranquillamente sia per quantificare il tuo servizio, da privato, o vendere la tua merce come azienda. L’azienda, infatti, venderà sia al 100% in euro che al 100% in fly. Come si entra in possesso dei fly? Attraverso lo scambio delle merci e dei servizi. Se io ho una merce da scambiare, chiedo dei fly in cambio, con questi fly posso comprare altre merci o servizi. Chi non la possibilità di scambiare-alcuni privati, per esempio, non possono farlo- possono comprarlo a un cambio vantaggioso, perché, in questo momento, con 1€ hai diritto a 1,5 fly, quindi aumenti il tuo potere di acquisto in maniera considerevole e lo utilizzi con potere di acquisto pari a quello dell’euro, quindi il prodotto avrà un costo in euro pari a quello dei fly. Quindi le imprese che vendono totalmente in fly avranno la possibilità di ottenere un 60% del prezzo, di convertire i fly in euro, e quel 40% possono riutilizzarlo con altre imprese per scambiarsi altri servizi. In questo modo il profitto che creiamo dalle transazioni, – si paga una piccola commissione, non si paga diritto di ingresso, non si paga niente altro, solamente le imprese, i venditori pagano una piccola commissione- va ad alimentare e implementare i servizi per questa grande comunità e poi anche altri progetti che la Fondazione andrà a sostenere.

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